In questa pagina voglio riportare un articolo pubblicato su Linx Magazine - La rivista di scienze per la classe
(www.magazine.linxedizioni.it) in cui è riportata un'interessante intervista al Prof. Stefano Mancuso.
Non si parla espressamente di piante carnivore, ma ci fà capire però le reali potenzialità del regno vegetale.
Stefano Mancuso racconta
26 Apr. 2011
Le piante sono sessili, ma non immobili e insensibili. Anzi, presentano sofisticate modalità di interazione con
l’ambiente e di comunicazione intra e interspecifica ed è proprio questo il campo di indagine di un’insolita
disciplina: la neurobiologia vegetale.
di Valentina Murelli
Partiamo con un quiz: qual è l’organismo più grande del pianeta? Molti probabilmente risponderanno «la balena».
E invece sbaglieranno, perché il più grande è la sequoia gigante. Una pianta. Del resto, è facile dimenticarsi
delle piante, o addirittura considerarle organismi di serie B, con la giustificazione che non si muovono e non
si fanno sentire. Anche questi però sono errori, e piuttosto grossolani. Le piante si muovono eccome, solo che
i loro movimenti, a differenza di quelli degli animali, sono “sul posto” (pensiamo alle giovani piante che
orientano la crescita in base alla direzione della luce solare) e sono in genere molto lenti. Con qualche
eccezione, come quella della Mimosa pudica, che al minimo contatto chiude le foglie molto velocemente.
O come gli scatti rapidissimi delle piante carnivore. Quanto al fatto che “non si fanno sentire”, be’,
molto dipende dalla nostra capacità di “ascoltare”. Le piante, infatti, hanno un ricchissimo sistema di
comunicazione, costituito da una grande varietà di molecole (amminoacidi, zuccheri, metaboliti secondari,
sostanze volatili) con cui “dialogano” con le proprie vicine o con gli animali. E sempre sul fronte
comunicazione, è degli ultimi anni la scoperta di un sistema interno di trasmissione delle informazioni
a livello delle radici che può essere considerato in qualche modo analogo al sistema nervoso degli animali.
Tra gli artefici di questa scoperta c’è Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio internazionale di
neurobiologia vegetale dell’Università di Firenze e uno dei fondatori della nuova disciplina della neurobiologia vegetale.
Professor Mancuso: ma allora anche le piante hanno un sistema nervoso?
Facciamo subito chiarezza: nelle piante non c’è un analogo “fisico” del tessuto nervoso, quel tessuto
costituito da neuroni e altre cellule nervose e specializzato nella trasmissione di segnali elettrici.
Eppure possiamo parlare di neurobiologia vegetale perché c’è un’analogia funzionale. In altre parole
le piante non hanno neuroni, ma alcune cellule vegetali – in particolare le cellule dell’apice radicale,
cioè la punta della radice – sono in grado di produrre segnali elettrici sotto forma di potenziali
d’azione (variazioni della differenza di potenziale tra interno ed esterno della membrana plasmatica, NdR)
e di trasmetterli alle cellule vicine. Ricordiamo che già Charles Darwin riteneva che gli apici radicali
rappresentassero una sorta di “cervello diffuso” delle piante, in grado di percepire segnali dall’ambiente
e di “prendere decisioni” sulle strategie da seguire. Oggi sappiamo che le radici possiedono anche meccanismi
per l’elaborazione e la trasmissione di questi segnali.
Negli animali uno degli elementi chiave della trasmissione nervosa è rappresentato dai neurotrasmettitori,
le molecole che trasportano l’informazione da un neurone all’altro a livello delle sinapsi. C’è qualcosa di
simile anche tra i vegetali?
Sì: molti neurotrasmettitori presenti nel nostro cervello (glutammato, serotonina, dopamina, acetilcolina ecc.)
sono presenti anche nelle piante. In questo caso non li chiamiamo neurotrasmettitori, perché non stanno in un
cervello e perché non sempre la loro funzione è nota, però ci sono. E per alcuni è stato mostrato un ruolo
fondamentale in meccanismi di trasmissione delle informazioni. Per esempio: una radice ha la costante necessità
di sapere con estrema precisione che cosa accade nell’ambiente circostante. Questa “conoscenza” le deriva
dall’attività degli apici radicali, ciascuno dei quali è in grado di “sentire”, cioè percepire e valutare,
almeno 15 parametri chimici e fisici differenti (temperatura, grado di salinità, grado di umidità e così via),
che devono essere integrati ed elaborati per individuare la direzione di crescita ottimale. È stato scoperto che
il glutammato è fondamentale per questa elaborazione: se manca oppure è presente in eccesso, la radice si comporta
come se avesse perso il senso dell’orientamento e cresce in modo anomalo.
In che modo lei e il suo gruppo di ricerca siete arrivati a capire che gli apici radicali possiedono
la capacità di integrazione, elaborazione e trasmissione di informazioni?
Il punto di svolta è stato la scoperta che una particolare zona degli apici radicali – la zona di transizione
– consuma molto più ossigeno delle zone vicine, una condizione che è indizio di forte richiesta energetica e,
dunque, della presenza di qualche intensa attività. Eppure, all’inizio la zona di transizione non sembrava
partecipare ad attività a forte dispendio energetico, come può essere la moltiplicazione cellulare. E allora:
perché la zona di transizione consuma tanto ossigeno se – in apparenza – non fa nulla di speciale? La nostra
ipotesi era che possedesse un’attività analoga a quella dei neuroni e in effetti con il tempo abbiamo mostrato
che le cellule di questa zona sono in grado di generare e trasmettere potenziali d’azione.
Con quali approcci e strumenti affrontate in laboratorio questi argomenti? E con quali organismi modello lavorate?
Usiamo metodi e strumenti di differenti discipline. Dalla biologia cellulare abbiamo “preso” i microscopi,
sia ottici (compreso il microscopio confocale a fluorescenza, che permette di visualizzare nel campione
differenti molecole opportunamente marcate), sia elettronici. Dall’elettrofisiologia abbiamo mutuato l’uso
di microelettrodi (dotati di punte con dimensioni inferiori al millesimo di millimetro), gli strumenti che
servono a misurare i potenziali d’azione nei neuroni. Noi li utilizziamo per studiare la produzione di segnali
elettrici in singole cellule vegetali, oppure i flussi ionici, cioè i movimenti degli ioni verso l’interno e
l’esterno delle cellule. Infine, dalla biologia molecolare abbiamo imparato ad analizzare e manipolare DNA e RNA.
Lavoriamo molto con Arabidopsis thaliana, una piccola pianta versatile e di cui si conoscono molti dettagli.
Però lavoriamo anche con altri modelli: tabacco, mais e pomodoro come piante erbacee e olivo e vite come piante arboree.
Gli apici radicali possono dunque essere considerati, in metafora, il “cervello” della pianta. Ma perché
proprio gli apici? E quali sono, allora, le “attività cognitive” vegetali?
Una delle ragioni più ovvie per spiegare perché le piante hanno sviluppato un’attività simil neurale a livello
degli apici sta nel fatto che questi risiedono sottoterra: il suolo, infatti, è un ambiente più stabile rispetto
all’atmosfera per temperatura e umidità, e per di più protetto dalla predazione animale e dalla radiazione
ultravioletta solare. Quanto alle attività “cognitive”, alcune le abbiamo già accennate: per esempio,
la capacità di raccogliere informazioni ambientali, integrarle e reagire di conseguenza. Le piante, poi,
mostrano grandi capacità di comunicazione intra e interspecifica, ma anche di apprendimento (e dunque di memoria)
e di calcolo di costi-benefici.
Mi sta dicendo che le piante ricordano?
Non nel senso comune che diamo alla parola ricordare, naturalmente: le piante non ricordano volti o emozioni,
ma possono ricordare particolari condizioni ambientali che hanno incontrato in passato e la risposta fisiologica
adeguata per quelle condizioni. Per capire meglio che cosa intendo dire partiamo dagli animali. Per “misurare”
la capacità di apprendimento di un animale, in genere gli si sottopone un problema più volte e si valuta
se la sua capacità di risolverlo migliora nel tempo. Se questo accade, diciamo che l’animale ha imparato
a riconoscere il problema – quindi lo ricorda – e a reagire di conseguenza. Ecco: lo stesso si può fare con le piante.
Quali problemi si possono sottoporre a una pianta?
Si tratta di problemi intesi come condizioni ambientali, per esempio una condizione di difficoltà,
di stress, come la presenza di un’eccessiva salinità nel suolo. La prima volta che una pianta incontra
questa condizione mette in atto una serie di risposte metaboliche necessarie a permetterle di
sopravvivere; se la condizione torna alla normalità (la salinità si abbassa), anche il metabolismo
della pianta lo fa. Ma supponiamo ora che torni a verificarsi una situazione di alta salinità: se
la pianta reagirà più in fretta, mettendo in atto più velocemente le risposte metaboliche necessarie
a sopravvivere, significa che avrà ricordato il caso e avrà imparato come reagire al meglio. Ebbene:
è stato verificato che questo è esattamente quello che accade.
Diceva che le piante possono effettuare calcoli di rapporti costi-benefici. Può fare un esempio?
Supponiamo di osservare una pianta che cresce accanto a un’altra. Le due competono per un bene
essenziale per la vita vegetale: la luce solare, fonte primaria di energia. Supponiamo che la “nostra”
pianta sia più bassa dell’altra e che quindi riceva meno luce. Questa è una tipica situazione in cui la
pianta deve prendere una decisione: restare com’è, accontentandosi della poca luce che le arriva,
oppure investire risorse nella crescita, nel tentativo di superare l’altezza della sua competitrice?
Per il mio modo di vedere, scegliere questa seconda strada significa tentare una previsione del futuro:
“immaginare” che i sacrifici richiesti per allungarsi saranno ricompensati dalla maggior disponibilità di luce.
Ma come si fa a sapere che l’allungamento della pianta è frutto di un calcolo e non di un meccanismo
automatico, geneticamente determinato?
Certo, il dubbio può venire. Però proviamo a pensare a che cosa accade se, invece che un solo fattore
– la luce solare – ne prendiamo in considerazione contemporaneamente altri, proprio come deve fare la
pianta: salinità, umidità, concentrazione di azoto, presenza di parassiti e così via. Di fronte a un
quadro così complesso, la “decisione” sulla direzione in cui crescere (puntare di più sullo sviluppo
fogliare? Sull’allungamento del fusto? Sullo sviluppo delle radici? Sulle difese contro i patogeni?)
non può essere una risposta automatica, ma deve dipendere dall’integrazione ed elaborazione delle
informazioni, fino a stabilire quale necessità, di volta in volta, è più stringente.
Ci può dire qualcosa anche sulla comunicazione tra piante?
Comunicazione è sicuramente una delle parole chiave della neurobiologia vegetale. Abbiamo visto
che le cellule di un’unica pianta comunicano tra di loro, in modi analoghi a quelli che finora si
ritenevano esclusivi degli animali. Le piante, però, sono abilissime anche nel comunicare con altri
organismi della stessa specie o di altre. Le radici, per esempio, secernono nel suolo una gran
quantità di sostanze che costituiscono veri e propri messaggi di segnalazione, e lo stesso fanno le
foglie e i fiori, con molecole volatili. In alcuni casi si tratta di “armi chimiche”, dirette contro
le piante circostanti con l’obiettivo di ostacolarne crescita e sviluppo, o contro predatori,
per allontanarli. Altri segnali, invece, sono “amichevoli”, e servono per attirare impollinatori o
per avvertire altre piante della propria comunità della presenza di pericoli: numerosi studi hanno
mostrato che le piante attaccate da insetti erbivori o da patogeni emettono sostanze volatili in
grado di segnalare il pericolo alle piante vicine, dando loro il tempo di prepararsi per affrontarlo,
con modifiche della propria fisiologia che le rendano più resistenti.
Ma non converrebbe a una pianta sottoposta all’attacco da parte di un patogeno concentrarsi sulla sua
risposta, senza perdere tempo e risorse per avvisare gli altri? Non le converrebbe essere egoista
piuttosto che altruista?
Consideriamo il problema in ambito evolutivo e immaginiamo di avere una pianta infestata “egoista”,
cioè concentrata solo a difendere sé stessa. Poiché non ha avvertito le piante vicine, è molto
probabile che anche queste finiranno con l’essere attaccate dal patogeno che, di conseguenza, rimarrà
“in zona” e potrà tornare a infestare più volte la pianta egoista. Non solo: in seguito all’infestazione,
le vicine possono morire, e allora la nostra pianta egoista, anche se rimasta in vita, non avrà nessuno
nei dintorni con cui riprodursi. Insomma, proprio come nel mondo animale, anche in quello vegetale ci
sono situazioni in cui conviene, evolutivamente parlando, essere altruisti.
Le piante non comunicano solo all’interno del loro mondo, ma anche con gli animali…
È proprio così, basti pensare ai segnali visivi (i colori) e olfattivi che emettono i fiori per
attirare gli insetti e indurli in questo modo a effettuare il servizio di impollinazione. E ancora:
molte piante attaccate da predatori o da patogeni producono sostanze repulsive nei confronti del nemico,
oppure in grado di attirare predatori del nemico stesso (secondo la nota logica “il nemico del mio nemico
è mio amico”). Tra le più comuni, lo fanno per esempio il tabacco, il pomodoro, le melanzane. Questa
proprietà e quella di avvertimento alle piante vicine possono essere sfruttate in ambito agrario: se
inondiamo una coltura con un “messaggio di avvertimento”, la prepariamo all’attacco, rispetto al quale
sarà più resistente.
Senta professore, dopo tutte queste informazioni una domanda viene spontanea: le piante sentono dolore?
Esiste una specie di convenzione scientifica secondo la quale questa è una domanda che non ci si deve
proprio porre. Io però ritengo davvero improbabile che organismi così complessi siano privi di un
sistema in grado di distinguere il “bene” dal “male” (inteso come qualcosa di pericoloso per la sopravvivenza),
che è proprio la funzione fondamentale del dolore. Seguendo questo ragionamento, mi sembra dunque probabile
che le piante possano soffrire anche se, allo stato attuale delle conoscenze, non possiamo dire “come”,
né sappiamo in che modo affrontare il problema: è possibile che abbiano meccanismi di percezione di ciò
che è bene o male per la loro vita molto differenti dai nostri.